Qui una prefazione e/o presentazione per modo di dire e soltanto nella misura in cui, come tutte le prefazioni e/o presentazioni, anche questa vien prima alla lettura essendo, nel contempo, il pezzo scritto e stampato per ultimo. Una prefazione presentazione ad ogni modo degli atti del convegno brusoniano del 13-14 novembre 1999 che escono, come si può constatare, se non immediatamente a ridosso, purtuttavia nemmeno tanto dopo (ancorché, a voler pignolare, in un altro secolo, in un altro, addirittura, millennio). Finalmente, comunque, respiriamo all’unisono di sollievo, Mario Cavriani ed io. Anche questa è fatta! ne è valsa la pena? speriamo – beninteso Cavriani e io – di sì.
Con in mente di Rovigo e su Rovigo soltanto il proverbiale “Rovigo no me intrigo”, di fatto, come studioso intermittente, ancora a metà degli anni 60 del secolo, ovviamente, scorso, intrigato dalla figura di Giovanni Bonifacio, con Rovigo, alla Concordiana, mi sono intrigato e districato. E un po’ speleologo nel sommerso di stampe e manoscritti locali ho ben constatato spessori storici e culturali, strati e sub-strati d’una vicenda urbana e territoriale complessa. Capitato in fretta e furia alle Concordiana per scrupolo di controllo e convinto, appunto, di poter tornare, sempre in fretta e furia, a Venezia, nella presunzione coriacea che la Marciana basta e avanza, ecco che, invece, mi son dovuto ricredere. Alla Concordiana mi sono fermato a lungo e ci sono tornato e ritornato più volte. Certo, continuavano a rombarmi in testa i versi d’Olindo Guerrini e/o Lorenzo Stecchetti: “Tra l’Adige ed il Po giace sepolta / scheletro di città Rovigo incolta”. Altro che “incolta”. Chissà perché il poeta forlivese ha così infierito? Astio momentaneo, nato da qualche malumore? mah! e che siano i suoi versi un rimbalzo d’un qualche brontolio dell’amico Carducci contro Rovigo perché – per qualche ragione o senza ragione – irritato con Carolina Cristofori Piva, che a Rovigo ha abitato. Non sereno idillio quello tra il vate corrusco e l’altrui sposa a lui cara. Trasporto, entusiasmo, ma anche furia, anche gelosia. E, si sa, uno se la prende colla donna amata e odiata, e, pure, coi luoghi. Che c’entri Lidia (un nome che si confà alla passione più che quello di Carolina) coll’inveire di Stecchetti? Lo propongo alla buona; forse è una stupidaggine; diciamo allora che, pur di schivare la seriosità, magari si rischia d’esser poco seri.
Ad ogni modo – e qui cerco di parlar seriamente – la Minelliana, grazie a Cavriani, è una costante smentita dei versi di Stecchetti. Saltano fuori una Rovigo e un Polesine rodigino con circolazione d’idee, con ricezione ed elaborazione, con biblioteche, con riflessioni, con slarghi di lettura, con esercizi di scrittura, con personalità quali – tanto per dire – Luigi Groto o Celio Rodigino. E, ora, con questo volume, il risalto di Brusoni, da un lato ricondotto ai luoghi dell’incubazione della sua personalità, dall’altro inseguito sino a Venezia, sino a Torino. E sullo sfondo il 600. Manca, purtroppo, nel volume, il testo di Giorgio Fulco su d’un napoletano ricalco del narrare lagunare. Ferratissimo studioso di Marino Fulco, penetrante e dipanante nel suo muoversi tra correlazioni e intrecci specie seicenteschi. Attento alle accademie, a quella lagunare degli Incogniti che incornicia il profilo di Brusoni, a quella partenopea degli Oziosi. E uomo generoso di sé, delle sue conoscenze, attivo anche nel promuovere e nel guidare indagini. E frutto recentissimo di questa sua generosità, di questo suo magistero la monografia, appena uscita di Girolamo De Miranda sull’accademia napoletana degli Oziosi. In proprio vagheggiava puntate veneziane per aggirarsi tra gli Incogniti. Così a me più volte, così nell’ultima telefonata fra noi intercorsa. E, in questa, m’aveva promesso l’invio del testo per gli Atti brusoniani. Gli bastava – m’assicurava – sottrarsi per un po’ agli impegni didattico-organizzativi per stenderlo, in Abruzzo (“come Croce”, gli sottolineavo), nella pausa rinfrescante che si riprometteva. Del tardo pomeriggio del 9 maggio 2000 la telefonata tra noi due. Di lì a poche ore, prematuramente, improvvisamente il decesso. L’ho appreso, a tutta prima, incredulo e poi subito sgomento, la mattina dell’11, scorrendo i necrologi – è una mia abitudine da quando sono in là cogli anni – di “La Repubblica”. Donde il sapore amaro, per Cavriani e me, di questi Atti. Non ci mancava solo un contributo; ci manca una persona. Altro non possiamo fare che ricordare. Ci mettiamo anche noi nella schiera di quanti sentono, nei confronti di Fulco, il dovere d’una memoria riconoscente. Altro non possiamo fare che ricordare. Ricordare, allora, colla mente e col cuore. E ricordare anche dedicando alla memoria di Giorgio Fulco questo volume.
Non è che chi – nella fattispecie Cavriani ed io – pensa ad un convegno esitante poi in atti a stampa, si metta sin dall’inizio in moto baldanzoso, pimpante, sicuro, determinato. A tutta prima è titubante. Fa un po’ di sondaggi, chiede in giro. Ecco: la risposta più incoraggiante ce l’ha data Fulco con la sua pronta adesione. Ne è valsa la pena? stando a Fulco sì.
Grazie, di cuore, a Giorgio Fulco.
Gino Benzoni