Si fa un gran parlare di dovere della memoria, in un periodo storico che si sta appiattendo, soprattutto per i più giovani, sul qui e ora. Si sta perdendo il senso del tempo e dello spazio perché veniamo informati di tutto in tempo reale e possiamo seguire le vicende dei luoghi più lontani del pianeta senza muoverci da casa.
In realtà la quantità eccessiva di informazioni che arrivano da ogni dove, raramente ci consente di capire realmente cosa sta succedendo, se non abbiamo gli strumenti giusti per selezionare, valutare, dare un senso e un significato agli eventi.
Sulla seconda guerra mondiale crediamo di sapere tutto. Montagne di libri e uno sterminato numero di trasmissioni televisive hanno sedimentato nei decenni una memoria condivisa che ha però lasciato ai margini tante, troppe vicende. Tra queste le mille storie dei militari dell’esercito italiano.
I soldati italiani, nel corso della seconda guerra mondiale, sono stati prigionieri di tutti gli eserciti e in tutti i paesi del mondo. Prigionieri di inglesi, americani, russi, francesi fino all’8 settembre 1943 (in Australia, in India, in Africa, in Europa, in USA, in URSS) e, dopo quella data prigionieri anche di Hitler.
Sembra incredibile che centinaia di migliaia di militari armati possano essere stati disarmati, presi prigionieri e trasferiti in carri piombati negli Oflag e negli Stalag del Terzo Reich, nell’arco di pochi giorni, nel settembre del 1943. Eppure è successo.
Il 25 luglio Mussolini viene arrestato. Il 26 luglio le truppe italiane nell’Egeo passano sotto comando tedesco e divisioni della Wehrmacht e delle Waffen-SS vengono fatte affluire in Italia senza che il governo Badoglio abbia la possibilità di fermarle. Il piano Alarich precedentemente preparato da Hitler, è aggiornato e modificato nel piano Achse che prevede l’occupazione del territorio italiano a nord di Roma, il disarmo dei soldati italiani, la sostituzione del governo Badoglio con uno fascista, l’arresto del re e dei responsabili del “tradimento”.
I soldati italiani vengono presi prigionieri in Italia, in Francia, nei Balcani, nelle isole dell’Egeo. I tentativi di resistenza si concludono con eccidi in massa (Corfu, Cefalonia, Kos, Spalato) perché i tedeschi negano lo status di militare ai soldati di Badoglio e li considerano forze irregolari.
L’operazione Achse è un grande successo per la Wehrmacht: procura al Reich centinaia di migliaia di internati da impiegare al lavoro nelle fabbriche, nelle miniere, nelle campagne – che rendono disponibili per il fronte un numero notevole di giovani tedeschi – e un bottino bellico impressionante, secondo in cifre solo a quanto guadagnato nei primi mesi della campagna di Russia. Il Reich inoltre per due anni può sfruttare le risorse dell’Italia centro-settentrionale – appropriandosi degli impianti industriali che gli sono necessari, sottraendo derrate alimentari e beni privati ai civili, deportando manodopera italiana, considerata forza lavoro al servizio del nazismo.
La prigionia dei soldati italiani nei lager della Germania nazista dopo l’8 settembre 1943, è stata una esperienza unica nel panorama delle prigionie militari, e non può neanche essere confusa con la storia dei campi di concentramento nazisti.
La storia dei militari italiani internati in Germania deve essere considerata un capitolo della resistenza e della lotta di liberazione nazionale, perché questi soldati hanno scelto il loro destino rifiutando di indossare la divisa della Wehrmacht o di rientrare in Italia per combattere nella Repubblica sociale italiana, nel nuovo esercito di Mussolini. Ci sono voluti molti decenni perché la vicenda di questi uomini cominciasse ad interessare gli storici e tornasse alla luce, ma la loro è stata una vera resistenza senza armi.
Eppure già il 25 marzo 1945 Edoardo De Filippo mette in scena a Napoli (tra applausi e pianti) la storia del ritorno a casa di un IMI in Napoli milionaria, uno dei capolavori del suo teatro e Giovannino Guareschi, giovane tenente catturato ad Alessandria e anche lui IMI, pubblica con grande successo Diario clandestino 1943-1945.
In questi primi anni del dopoguerra sono tanti i reduci che raccontano la loro storia. Poi il silenzio, dovuto a molti e complessi motivi di politica interna e di politica internazionale.
Gli studiosi italiani si avvicinano tardi e con molti distinguo a queste vicende e dobbiamo comunque a storici tedeschi gli studi più seri ed approfonditi condotti negli archivi (G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich. 1943-1945. Traditi – disprezzati – dimenticati, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1997; G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, Il Mulino, 2004).
A loro volta gli ex IMI (internati militari italiani) con l’avanzare dell’età cominciano a sentire l’esigenza di lasciare traccia della loro vicenda biografica, cominciano a cercarsi, a riunirsi per gruppi, per lager. Si incontrano, cercano di dare un senso a ciò che hanno vissuto e patito in prigionia. Raccolgono i loro vecchi appunti, i pochi documenti salvati e scrivono.
La maggior parte di queste pubblicazioni circola in poche copie tra amici e conoscenti, qualcuna arriva in mano agli storici. Raramente si scoprono fatti ancora sconosciuti. Quello che conta però è il vissuto di queste persone, la riscoperta di una storia che tantissimi ignorano, ma che ha riguardato quasi tutte le famiglie italiane.
Oggi sono i figli e i nipoti le persone più interessate a preservare queste memorie di famiglia di cui spesso vengono a conoscenza tardi e per caso, riordinando cassetti o soffitte.
Nel panorama generale dell’internamento, i prigionieri di Breloh possono essere definiti fortunati perché lavorano in campagna, nelle fattorie e non sotto le bombe, nelle fabbriche di armamenti o in miniera. Anche loro, a distanza di decenni sentono il desiderio di ritrovarsi e di raccontarsi. Qui si raccontano aneddoti, storielle rielaborate con una pretesa letteraria che forse non sempre giova, ma restituiscono il senso di una esperienza tragica ed unica, pur facendoci sorridere. A distanza di decenni dai fatti vissuti e dopo aver letto e meditato su chissà quanti libri si percepisce il tentativo di una rielaborazione consapevole di situazioni di cui all’epoca non ci si rendeva conto.
La lettura è piacevole e scorre veloce anche se dietro questi fatti di microstoria è facile vedere la tragedia collettiva di una intera generazione di giovani.
C’è stato un lungo contenzioso tra Italia e Germania a proposito dei cosiddetti ‘schiavi di Hitler’.
Sottratti alla convenzione di Ginevra, durante la guerra, per poterli far lavorare anche nelle fabbriche di armi e nell’industria pesante (dove era vietato venissero impegnati i prigionieri di guerra), gli IMI sono stati esclusi dal novero delle persone aventi diritto all’indennizzo previsto dalla legge tedesca con la costituzione della “Fondazione memoria, responsabilità, futuro”. Il motivo è dato dal fatto che si è argomentato che in fondo erano sempre e comunque prigionieri di guerra.
Nel 2008 la Corte di Cassazione italiana riconosce ai familiari di alcune vittime il diritto ad esigere un risarcimento dallo Stato tedesco, ma la Corte di Giustizia dell’ONU respinge il ricorso presentato dall’Italia contro la Germania.
A novembre 2008 i governi dei due paesi hanno costituito una Commissione di storici italiani e tedeschi chiamati ad occuparsi del destino degli IMI. In tal modo ci si è spostati dal piano giudiziario al piano storico.
I lavori della Commissione si sono conclusi a luglio 2012 con un interessante Rapporto conclusivo che punta ad una doppia visione della realtà di quegli anni. Nessun risarcimento economico ma la creazione di luoghi della memoria a Berlino e a Roma. Si tratta di un riconoscimento almeno simbolico delle sofferenze degli italiani nei campi di concentramento tedeschi.
Anna Maria Isastia
Storia contemporanea
Università La Sapienza Roma
[hr]
In copertina:
Aniello Eco, Ingresso nello M.Stammlager XIB di Fallingbostel